Già
l’espressione del bibliotecario non prometteva nulla di buono e rivolgendosi a
Reiser con parole fredde, gli disse che gli dispiaceva di dovergli comunicare
che non si poteva far nulla per il suo ingaggio a teatro e che non poteva fare
nemmeno un provino.
[…]
Reiser, paralizzato nel corpo e nella mente, non riuscì a dire una parola, ma
se ne andò in fondo al teatro dove l’ultimo sipario confina con la parete nuda
e diede una testata al muro in preda alla disperazione perché ora era davvero
infelice, doppiamente infelice.[1]
Questo
masochistico atto sembrerebbe riassumere, con forte valenza metaforica,
l’aspetto centrale dell’Anti-Bildungsroman
autobiografico di Karl Philipp Moritz: il giovane protagonista, dopo un viaggio
spossante condotto in condizioni materiali disperate, e settimane di umiliante attesa,
vede distrutte in un attimo le aspirazioni che gli avevano permesso fino ad
allora di sopportare il suo stato, e va a sbattere (letteralmente) contro la
nuda realtà, la parete esterna del teatro, una volta superati i sipari e le
quinte delle sue autoillusioni.
In
realtà il quadro è più complesso. Basta ripercorrere la rassegna, in un
intervento di Alessandro Costazza, delle numerose e diverse interpretazioni di
cui il romanzo è stato oggetto in particolare nel corso del ventesimo secolo,
per rendersi conto di quanto in realtà quest’opera sia poliedrica e difficile
da ridurre a un solo tema.
Dalle
vecchie letture che vedevano sostanzialmente l’Anton Reiser come fonte storica sulle pratiche pietistiche del
tardo Settecento si è passati, negli anni sessanta e settanta dello scorso
secolo, a enfatizzare la carica di critica sociale e anti-religiosa presente nel
romanzo. Successivamente, a suscitare l’attenzione dei critici è stato il
legame tra “il primo romanzo psicologico della letteratura tedesca”[2] e
l’antropologia dell’epoca, di cui l’autore era esponente militante con al sua
rivista di psicologia sperimentale.
Accanto
agli studi che analizzavano il romanzo in relazione alla nascita della moderna
psicologia empirica, hanno iniziato ad avere luogo i tentativi di catalogare l’Anton Reiser da un punto di vista
formale: visto di volta in volta come capostipite del romanzo autobiografico o
esponente precoce dell’Entwicklungsroman
e del Künstlerroman, si è dimostrato
refrattario alle descrizioni sommarie. Particolarmente significativo
l’accostamento col Bildungsroman, del
quale rappresenta, più che un precedente, una negazione, in virtù
dell’andamento ricorsivo e privo di vera evoluzione della vicenda, e della
realtà sociale degradata che ne costituisce l’ambientazione – risale a Schrimpf
la formulazione “Anti-Bildungsroman”.
A
quest’ultimo tentativo di definizione si dedica Costazza, enumerando i critici
che hanno esaminato le varie sfaccettature della “tragedia del dilettante”; di
volta in volta, sono stati enfatizzati aspetti anche contraddittori: la
denuncia etica (in Müller) o estetica (in Vaget) del “falso istinto artistico”
che conduce al dilettantismo, la portata rivoluzionaria e liberatoria del
rapporto con l’arte (Allkemper), la reale evoluzione artistica e culturale che
sta dietro all’escapismo di Reiser (Vietta). Come si vede, le possibili
implicazioni del romanzo di Moritz in relazione al quadro più ampio del Bildungsroman restano numerose e
controverse. Soprattutto, è riduttiva un’interpretazione che ponga Anton Reiser unicamente in relazione alla
forma romanzo elaborata da Wieland. Esistono consistenti elementi di
eterogeneità: nella genesi del romanzo di Moritz ci fu di certo, come fa notare
Cometa[3],
un legame con la riflessione autobiografica già avviata dall’autore nella sua prima
opera memorialistica sul viaggio in Inghilterra. Ancor più pregnante è il
rapporto con l’attività di psicologo e pedagogo dell’autore.
1. Diagnosi
narrativa
La
rivista Gnothi Sauton, fondata da
Moritz nel 1783, due anni prima del primo libro di Anton Reiser, era programmaticamente dedita alla “conoscenza
dell’anima basata sull’esperienza”[4],
alla creazione di un nuovo terreno disciplinare al confine tra filosofia e
medicina, al fine di diffondere una “autocoscienza laica”[5] di
stampo illuminista. In altre parole, si trattava di costruire un nuovo tipo di
consapevolezza psicologica, non fondata sulle vecchie costruzioni sistematiche,
ma sull’intuizione e sull’osservazione diretta; tali studi porranno le basi di
un nuovo approccio ermeneutico, successivamente sviluppato in relazione alla
fruizione e produzione artistica nella nascente estetica moritziana (il saggio Sul concetto del compiuto in sé stesso è
del 1785). Si tratta di un progetto estetico che, per quanto sviluppato solo
parzialmente e in modo piuttosto asistematico, ha fatto grandi passi rispetto a
quello di Baumgarten, “ricalcato sulla retorica”[6], e
che per Todorov contiene “in embrione tutta la dottrina estetica del
romanticismo”[7].
Nel
contesto di Gnothi Sauton, interessa
evidenziare come questa nascente o nascitura ermeneutica focalizzata sui sensi
e sull’intuizione si concretizzi in un’attenzione senza precedenti al
particolare, al dettaglio concreto e apparentemente insignificante, che diventa
rivelatore una volta inserito in una rete di relazioni. Più che teorici
illustri e personaggi dell’establishment
culturale, i collaboratori ideali per Moritz sono in primo luogo osservatori
scrupolosi: predicatori, giudici, militari, chiunque per professione si trovi a
contatto con casi psicologici che permettano di indagare i confini tra sanità e
follia, ovverossia la “varietà delle disposizioni e delle caratteristiche che possono
evolvere verso la malattia”[8];
queste tendenze esigono, per essere svelate, una attenta e quotidiana
osservazione dei pazienti, in grado di sfociare in una ricomposizione foriera
di senso della vicenda umana che sta dietro ai casi patologici. Il risultato
auspicato e raggiunto è di raccogliere, anche grazie alla collaborazione del
pubblico, una messe di dettagliati racconti di vicende individuali, un
repertorio di testimonianze dirette, che permetta di gettare luce su verità
universali cogliendo le relazioni tra un’infinità di particolari apparentemente
trascurabili. Alla luce di questo, si leggano le introduzioni alle prime due
parti di Anton Reiser:
Chi
conosce lo svolgersi delle vicende umane e sa quanto spesso, nel corso della
vita, possa diventare importante ciò che da principio gli era sembrato piccolo
e insignificante, non se ne vorrà per l’apparente futilità di molti fatti qui
narrati.[9].
Chi
rivisita attentamente il proprio passato, all’inizio spesso crede di non vedere
altro che cose prive di senso, fili spezzati, confusione e tenebre. Ma quanto
più il suo sguardo vi si sofferma, tanto più le tenebre si diradano, ciò che
appariva privo di senso a poco a poco invece lo riacquista, i fili spezzati si
riannodano nuovamente, ciò che era confuso ed intricato si riordina… e la
dissonanza, quasi inavvertitamente, si trasforma in melodiosa armonia[10].
La
consonanza con le teorie che governano la rivista sono evidenti. L’intento di
attuare una ricostruzione del senso generale a partire dal caos opaco dei
dettagli quotidiani, analizzati minuziosamente in tutta la loro banalità, trova
nel romanzo autobiografico la sua declinazione più completa e più ampia[11].
Quale caso, d’altronde, poteva essere più vicino agli occhi dell’osservatore
della sua propria vicenda personale? Se è vero che si tratta pur sempre di “un
romanzo di formazione – un archetipo del genere – in cui convergono elementi
autobiografici, stilizzazione romanzesca ed elementi metatestuali in cui il
narratore si distanzia dalla propria stessa biografia”[12],
il dato fondamentale è che la narrazione deve la sua impostazione agli studi
psicologici dell’autore.
Nei
primi tre libri si costruisce, in particolare, una diagnosi di come l’ambiente
familiare, e poi quello scolastico, la religione e la povertà abbiano innescato
nel giovanissimo Anton una serie di meccanismi di compensazione e di pratiche
masochistiche[13]
che gli impediscono ogni forma di socializzazione, spingendolo a praticare una
forma estrema di escapismo.
Il
metodo è rigoroso, e consiste, come detto, nella registrazione meticolosa dei
minuti fatti che vanno a plasmare la psiche del “paziente”. Si parte,
significativamente, con una breve storia del quietismo, le cui dottrine,
riassunte nella mortificazione delle passioni e dell’individualità, condurranno
il padre di Anton a distruggere la pace domestica e a infliggere al figlio una
prima educazione severa e frammentaria. L’instabilità emotiva e il disagio che
conseguono dalle liti tra i genitori, insieme a una straziante ferita al piede
la cui guarigione richiede tre anni, portano il bambino a rifugiarsi il prima
possibile nel mondo illusorio della lettura, e alle pratiche mortificanti imposte
o suscitate dal credo del padre. È dalla prima infanzia che Reiser conosce la joy of grief che farà di lui un
misantropo e un malinconico.
Su
queste premesse poggia la successiva alienazione sociale del ragazzo: “come era
possibile che potesse nascere in lui il desiderio intenso per un trattamento
affettuoso, dal momento che non vi era mai stato abituato e quindi non poteva
averne la benché minima idea?”[14];
questa domanda retorica illustra la radice del circolo vizioso che segnerà
l’adolescenza del “paziente” provocando
in lui una “incapacità strutturale di socializzazione”[15]:
il rifiuto degli altri spingerà Anton a isolarsi sempre di più nelle sue
fantasie teatrali e letterarie, il che porterà i suoi compagni a escluderlo
ancora più aspramente esasperando ulteriormente la sua reazione.
Il
circolo vizioso, in effetti, è un’immagine che illustra molto bene l’andatura
narrativa del romanzo. Interessante il paragone con il Wilhelm Meister: la trama di quest’ultimo potrebbe essere riassunta
come una caduta, dalla situazione di normalità[16]
iniziale, nel mondo illusorio del teatro, seguita da un graduale ritorno al
reale sotto la guida della “Società della Torre”, per finire in un ripristino
(per quanto ambiguo e parziale) della normalità borghese attraverso il
matrimonio. Nell’Anton Reiser questo meccanismo sembra
ripetersi all’infinito e la situazione non si risolve, per due ragioni: la
situazione di partenza non è in nessun modo definibile come una normalità
accettabile, a cui sia auspicabile un ritorno; e in secondo luogo è assente una
qualsivoglia entità benefica ed educatrice in grado di influire efficacemente
sul protagonista; di conseguenza, quest’ultimo continua a rimbalzare tra realtà
ostile e frustranti illusioni. Se Goethe “assume [..] la cultura borghese in sé
a problema centrale del romanzo”[17],
per Moritz la finalità è un’altra: anzi che un’opera che ha la giovinezza “come
determinazione sostanziale”[18] e
l’”incerta esplorazione dello spazio sociale”[19]
come obiettivo”, abbiamo di fronte “una sorta di compendio paradigmatico delle
numerose patologie passate in rassegna dalla rivista”[20], un
viaggio nell’interiorità che parte dall’infanzia e applica i metodi della
psicologia empirica.
2. Escapista
Nel
corso del romanzo, per gran parte del tempo il giovane Reiser non fa che
elaborare strategie sempre meno ingenue per nascondersi la traumatica realtà
della sua esistenza, che puntualmente falliscono. Il narratore le descrive una
ad una, tornando spesso sui singoli temi, disegnando quello che si potrebbe chiamare
l’”albero genealogico” del più macroscopico errore di Anton Reiser: quello di
credersi attore.
La
prima illusione vera e propria è quella della religione: cresciuto sotto la
guida dispotica del padre, condizionato dalle dottrine di Mme Guion e Von
Fleischbein, nei suoi primi anni Reiser cerca di rendere sopportabile la sua
condizione e ovviare alle carenze affettive attraverso la fedeltà ai principi
quietistici; la loro severità, unità all’inconciliabilità col più blando
luteranesimo propugnato dalla madre, e al coacervo di nozioni mitologiche e
religiose acquisite con le prime, caotiche letture, trasforma Reiser in un
“perfetto ipocondriaco”[21],
confuso su sé stesso e sul mondo e assalito da lancinanti sensi di colpa per i
motivi più futili. Qui il tono della narrazione è spiccatamente illuminista e
quasi satirico: una natura buona, di stampo rousseauiano, pone rimedio ai danni
causati dalle mancanze di cultura e società, dissipa i superstiziosi timori di
morte inculcati dalla madre di Anton e dai religiosi: “la primavera tornò […].
Anton sentì dentro di sé un nuovo impulso vitale; si lavava e le sue mani
tornavano a cacciare di nuovo vapore, i cani non ululavano più, la gallina
cessò di cantare e il pastore Paulmann non tenne più prediche sulla morte”[22].
Reiser,
una volta sfuggito al massacrante apprendistato presso il quietista cappellaio
Lobenstein, “attraverso l’arte secolarizza la propria religiosità pietistica”[23];
le prediche del pastore Paulmann hanno mostrato al giovane un nuovo, molto più
potente mezzo di compensazione: la recitazione. Immedesimandosi nel carismatico
pastore, declamando passioni che non sono sue e pertanto gli permettono di
dimenticare temporaneamente la sua triste condizione, Reiser impara una nuova
strategia di autoillusione e si distanzia dalla rigida, anaffettiva ortodossia
quietista. Ulteriore conseguenza, quando a scuola vengono organizzati esercizi
di recitazione, pare emergere in Anton una sorta di disposizione naturale verso
tale attività:
Per
sé voleva una parte molto passionale, nella quale potesse intervenire con
grande pathos e rappresentare una serie di sentimenti, che gli piacevano tanto,
e che tuttavia nel suo mondo reale dove tutto era così arido, così misero, non
poteva avere. Era molto naturale che desiderasse ciò; sentimenti di amicizia,
di gratitudine, di generosità e di nobile fermezza sonnecchiavano inermi dentro
di lui; […] Nessuna meraviglia che cercasse di tornare a vivere in un mondo
ideale e di seguire i suoi sentimenti naturali![24]
Come
si vede, la predisposizione naturale non è verso il teatro, ma verso
l’escapismo; Anton Reiser, abituato fin dall’infanzia alle fughe in un “mondo
ideale”[25],
si illude che la sua ingenua tendenza all’immedesimazione negli altri sia talento
artistico – e invece non c’è nulla di più distante dalla “forza attiva”,
“capacità ‘totalizzante’”[26]
che nell’estetica moritziana sarà alla base dell’imitazione formatrice del
bello.
Parallelamente,
i successi scolastici diventano un’altra ambigua fonte di soddisfazioni.
L’ambiguità sta nel fatto che il riconoscimento sociale dato dal plauso dei
docenti suscita l’invidia dei compagni di Reiser. Questo, nel soffocante clima
pedagogico in cui si svolgono le due parti centrali del romanzo, conduce a un
inevitabile affermarsi e ripetersi del circolo vizioso sopra descritto, fatto
di antisocialità e isolamento, illustrato dall’autore in alcuni dei passi più
esplicitamente polemici del romanzo[27]. Avviene
una graduale trasformazione che ci viene descritta in tute le sue sfumature: il
ragazzo povero che ha l’unico obiettivo di mettersi in luce di fronte alle
autorità scolastiche nella speranza di trovare un mecenate diventa un asociale,
reso apatico da letture a cui si è assuefatto a tal punto da poter essere paragonato
a un tossicodipendente[28]. Quasi
tutti i pochi momenti di gioia nella vita reale gli provengono – se si
escludono le soddisfazioni derivanti dalla sua “attività letteraria” entro una
piccola cerchia di outsider della
cultura – da occasionali infrazioni delle regole: fatti minimi, come una
sbornia o un furto di frutta, che nella fantasia di Reiser diventano colpe
gravissime, ma che gli valgono anche la stima dei compagni, similmente ingigantita
nella sua interiorità.
Le
mille piccole umiliazioni che costellano l’adolescenza di Anton vengono
puntualmente riportate, e vanno a comporre un elenco che di volta in volta si
ripresenta accresciuto; il narratore ci mostra come fatti di importanza apparentemente
scarsa , ponendosi in relazione l’uno con l’altro nella memoria, si
ingigantiscano nella psiche malata del protagonista, fino a sfociare in crisi
che lo sconvolgono e lo paralizzano:
Questo
riverisco pieno di premura [il saluto
di un giovane aristocratico al quale Reiser impartisce lezioni private, interpretato
dal protagonista come offensivo invito ad andarsene] si associò all’improvviso
nella sua mente allo stupido ragazzo!
dell’ispettore di seminario, all’io non parlo certamente di lui del
commerciante, al par nobile fratrum
dei liceali e all’espressione questa è
una vera sciocchezza! del rettore. Per qualche istante si sentì come
annientato, tutte le sue forze spirituali erano paralizzate […]. Pianse […]
lacrime amare di sconforto e di tedio. Tutto gli apparve ad un tratto in una
luce triste e malinconica; […] tutto questo a causa di una espressione
eccessivamente premurosa.[29]
A
questa summa delle umiliazioni legate
alla condizione sociale del protagonista fa seguito il passo più esplicitamente
critico in senso politico del romanzo:
In
fondo fu il sentimento dell’umanità oppressa dalle relazioni borghesi ad
impadronirsi di lui in questa occasione e fargli odiare la vita; […] che cosa
aveva mai commesso di male prima della sua nascita per non essere diventato
anche lui uomo di cui molte altre persone si prendono cura? […] Perché proprio
lui aveva avuto il ruolo di chi lavora e un altro di chi paga? Se le sue
condizioni lo avessero reso felice e contento, avrebbe visto dovunque ordine e
finalità, ma ora tutti gli sembrava contraddizione, disordine e confusione.[30]
Quando
quest’ultima consapevolezza si somma a tutte le ragioni emotive e psicologiche
dell’alienazione di Reiser, la paralisi si trasforma in determinazione ad abbandonare
a tutti i costi la sua condizione.
Il
viaggio si configura come l’ennesima modalità di fuga dal reale messa a punto dell’escapista
Reiser[31].
Fin dalla prima parte del romanzo, l’”idea del luogo” è posta in stretta
relazione alla consapevolezza di sé: “le singole strade e le case che Anton
rivedeva ogni giorno costituivano un punto fermo nelle sue fantasie, al quale
si legava tutto ciò che nella sua vita era in continuo movimento, che dava
unità e verità, e attraverso cui egli distingueva la veglia dal sogno”[32].
Il concetto è persino oggetto di una parentesi aneddotico-teorica il cui
protagonista è “uno dei nostri più grandi filosofi oggi vivente”[33],
del quale si riporta un’esperienza infantile al fine di sottolineare la forte
connessione la percezione spaziale e coscienza di sé – al punto che la prima è
quasi un prerequisito della seconda.
Così
si spiega il forte streben che spinge
Anton prima a vagabondare tra Hannover e Brema, e poi a fuggire per davvero
alla volta di Erfurt e della vita itinerante dell’attore: abbandonare un luogo
significa potersi dimenticare temporaneamente la propria identità. Per Anton in
viaggio o a passeggio, “appena il là diventava qui, perdeva anche tutto il suo
fascino e la fonte di gioia si esauriva”[34].
A ciò si aggiunga il fatto che lasciare Hannover, luogo di infinite umiliazioni
e sofferenze, permette a Reiser di sottrarsi alla cerchia esigua che ha finora circondato
la sua disgraziata esistenza. L’anonimia del viandante gli concede, una volta
cancellata la sua penosa identità, l’illusione di poter ricostruire da capo i
suoi rapporti sociali; e gli permette di immedesimarsi con un illustre
precedente: “l’immagine del viandante omerico […] gli tornava sempre in mente e
persino quando mentiva le sue menzogne coincidevano quasi alla perfezione col
suo modello poetico, che vede al suo fianco Minerva sorridergli consenziente”[35].
Inutile dire che i suoi grandiosi viaggi si riducono in patetici vagabondaggi
senza meta[36],
nel corso dei quali Anton Reiser, affamato e sfinito, diventa quasi personaggio
picaresco[37].
3. Dilettante
Per
quanto riguarda il teatro, si è già visto come la malattia della falsa
vocazione, o dilettantismo a dir si voglia, abbia subdolamente sviluppato le
sue radici nella psiche del protagonista: la tendenza alla fuga da sé
attraverso l’immedesimazione, nata coi remoti traumi infantili, si alimenta
prima di letture e prediche, poi dei primi spettacoli teatrali ammirati o
fortuitamente allestiti, fino a diventare autentica aspirazione ad abbracciare
la carriera dell’attore. Le profonde radici psicologiche del fenomeno spiegano
la determinazione di cui Anton Reiser dà prova a più riprese nel perseguire il
suo progetto: ad animarlo è “un coraggio davvero eroico”[38],
che conduce il giovane a sfidare tutte le insormontabili avversità che gli
precludono l’agognata professione.
L’introduzione
di quest’ultimo libro si apre con la domanda cruciale “se un giovane sia in
grado o meno di scegliere da solo la sua professione”[39];
il sottinteso è, chiaramente, l’analisi psicologica delle illusioni teatrali di
cui la gioventù tedesca era preda all’epoca. Visti i suoi presupposti
esistenziali, Reiser è soggetto ideale per tale indagine, in quanto in lui la
presunta vocazione è talmente forte da “produrre gli stessi fenomeni che si
manifestano nel vero genio artistico”[40].
La
sua propensione al teatro si distingue da quella degli altri personaggi, che
pure ne conoscono una simile; in particolare tra lui e Iffland, che pure scappa
da casa per fare l’attore (e lo fa con successo) esiste una differenza che è
stata paragonata a quella che distingue, nel Wilhelm Meister, Aurelie da Serlo:
Mentre
Serlo ha […] analogie con la rappresentazione di Iffland […], caratterizzato
dalla mancanza di una sensibilità profonda, che dispone però di una grandissima
capacità imitativa, la sorella Aurelie recita invece solo identificandosi
totalmente con i personaggi teatrali, fino a non distinguere più tra arte e
vita.[41]
Ciò
non significa che l’”attore sentimentale” sia destinato a non imbracciare la
professione – Aurelie lo dimostra, pur finendo per autodistruggersi a causa
della sua passionalità. Anzi, Si potrebbe anche dire che Anton Reiser è un
attore più professionale di Wilhelm Meister: quest’ultimo viene lucidamente apostrofato
da Jarno perché incapace di imitare realmente le passioni altrui[42],
invece Reiser riesce ad avere successo anche in ruoli comici e addirittura
femminili.
Alcuni
critici hanno visto, nella quarta parte dell’Anton Reiser, una svolta rispetto
alle prime tre: dopo il viaggio in Italia, l’incontro con Goethe e le
formulazioni estetiche più estese e definite, Moritz avrebbe parzialmente
abbandonato l’approccio del pedagogo-psicologo per dedicarsi al suo
personaggio-alter ego da esteta,
intento dunque a criticarne la vocazione sulle basi della filosofia dell’arte. Gli
scritti estetici di Moritz e l’introduzione al quarto libro lo fanno pensare:
come ho già accennato[43],
la vocazione teatrale di Reiser sembra predestinata al fallimento, in quanto egli
confonde “la semplice facoltà di percepire il bello e la vera facoltà di
produrlo”[44],
la “forza attiva” in grado di unificare le più facoltà umane (Empfindungskraft, Bildungskraft, Denkkraft);
questa forza “piuttosto misteriosa”[45] è
l’unica a rendere possibile all’uomo la vera attività artistica, che implica
una imitazione del processo creativo della natura, e non di semplici oggetti o
passioni: “se c’è imitazione nelle arti, essa è nell’attività del creatore: non
è l’opera che copia la natura, ma l’artista, e lo fa producendo opere”[46]. Il
fallimento dell’affermazione artistica di Reiser sarebbe dovuto al fatto che
egli non è dotato della forza attiva unificante che caratterizza il genio, ma
solo delle singole facoltà che gli permettono di pensare filosoficamente e di
apprezzare l’arte; egli non è in grado di imitare l’attività creatrice della
natura, ossia di creare oggetti che racchiudano in sé stessi la propria
finalità e siano pertanto autenticamente belli.
In
verità, la situazione è più complicata. Sono da prendere in considerazione le
ampie ragioni accidentali del fallimento di Reiser: le disastrose condizioni
sociali, la povertà, il suo aspetto fisico potrebbero bastare a spiegare il
mancato successo come attore. Si aggiunga che, nelle rare occasioni in cui a
Reiser è concesso di recitare senza dover affrontare gravi handicap, il risultato non è affatto deludente, al punto di
procurargli una certa fama tra gli studenti di Hannover, e persuadere addirittura
uno dei suoi tutori a permettergli di seguire la sua vocazione[47].
Costazza, nel suo intervento, smonta uno ad uno i “sintomi della mancanza di
‘vero istinto poetico’”[48]
enumerati da Moritz in un passo dell’Anton
Reiser, in quanto di fatto non attinenti alla produzione artistica del
protagonista del romanzo, la quale peraltro riscuote presso compagni e maestri una
“diffusa e unanime approvazione”[49]. Se
Reiser non può diventare un artista, non è dunque solo colpa sua.
4. Malattia
e cura
Tirando
le fila, la malattia di Anton Reiser si configura dunque come aspirazione
irrazionale a un desiderio irrealizzabile, che lo porta ad agire in modo
deviato rispetto alla normalità. Una volta appurato che nella vita di Reiser non
esiste nulla di simile alla “normalità” da cui vuole fuggire, ad esempio,
Wilhelm Meister[50],
e che l’irrazionale desiderio di diventare attore è in realtà profondamente
radicato nella sua psiche, connesso a una più generale tendenza all’astrarsi
dall’ambiente ostile, si palesa un’altra faccia della medaglia: il ruolo
terapeutico dell’arte.
La
tendenza pietistica all’autoanalisi, gradualmente secolarizzata e coadiuvata da
letture che vanno dai classici latini a Shakespeare, conduce Anton Reiser a
definire sempre di più un metodo ermeneutico che gli permette di dare un senso
alla propria disarmonica vicenda. Fin da ragazzino, in alcuni momenti fortunati
riesce ad avere sulla sua vita una “prospettiva totale” che gli consente di
analizzare la sua situazione e prendere decisioni:
Per
avere un’immagine immediata della totalità della sua vita attuale era
necessario recidere in certo qual modo tutti i fili che tenevano sempre fissata
la sua attenzione a ciò che in essa era momentaneo, quotidiano e frammentario
[…]. Era proprio la prospettiva in cui si trovò quando, per caso, uscì fuori
dalla porta dalla quale era entrato quasi un anno e mezzo prima, seguendo
l’ampio stradone alberato, e aveva visto la sentinella andare su e giù […].
Tutto quello che c’era in mezzo si concentrò nella sua immaginazione, si
addensò come ombre, divenne simile ad un sogno. Perché lo stare su quel ponte a
guardare in alto verso quell’alto bastione, dove si trovava la sentinella, si
ricollegava strettamente ad un anno e mezzo prima […]. L’intensità con cui
immaginava e ricordava il luogo fece sì che il ricordo dell’intervallo di tempo che era trascorso
scomparisse o si indebolisse […]. Da quel giorno in poi si ripropose fermamente
di non restare ancora a lungo nella casa di Lobenstein, a qualsiasi costo.[51]
I
passi del romanzo in cui il protagonista attua un’autoanalisi di questo stampo
sono numerosi, e si intensificano nell’ultimo libro, nel quale cresce sempre di
più la tensione tra l’autocoscienza di Reiser e la sua volontà di diventare
attore[52].
Nel corso della sua vita da universitario a Erfurt, Reiser arriva addirittura a
prospettarsi un futuro “normale” che gli era sempre parso inesorabilmente
precluso:
All’improvviso
l’idea di una vita improvvisamente tranquilla tornò a farsi prepotente […]. La
sua carriera di studente, infatti, qui sarebbe sfociata in quella di insegnante
e quindi avrebbe raggiunto così la meta di tutti i suoi desideri e delle sue
speranze […]. Quando passeggiava intorno alle case facendo il giro della città,
si rendeva chiaramente conto di essersi liberato, grazie ai suoi sforzi, da
condizioni insopportabili e di aver cambiato la sua posizione nel mondo grazie
alle proprie forze […]. A poco a poco si destavano tutti i ricordi del passato;
il presente non soffocava la sua esistenza ma abbracciava tutto ciò che era
ormai scomparso.
E
questi erano i momenti più felici della sua vita: solo allora la sua stessa
esistenza cominciava ad interessarlo perché la considerava parte di un contesto
più ampio, e non isolata e frammentata.[53]
Il
malinconico misantropo intrappolato nelle sue stesse fantasie è
irriconoscibile: Anton Reiser pare quasi arrivato ad “apprendere […], a
indirizzare ‘la trama della propria vita’ in modo che ogni momento rinsaldi il
proprio senso di appartenenza ad una
più vasta comunità”[54],
ossia quello che per Franco Moretti è obiettivo del Bildungsroman; per la prima volta Reiser sente di poter fare a
tutti gli effetti parte della società, e sembra pronto a rinunciare alle sue
fantasie: è pervenuto a ciò ricostruendo, gradualmente, la Zusammenhang, l’armonia celata nelle dissonanze della sua esistenza[55]. È
stata la sua attività intellettuale, nata come tendenza escapistica, a
permettergli di raggiungere questo risultato, migliorando la sua condizione
sociale (Reiser è infatti pur sempre riuscito ad accedere all’università,
risultato non da poco viste le scoraggianti premesse) e dandogli consapevolezza
di essa[56];
inoltre le sue competenze (dopo averlo emarginato ad Hannover) gli valgono a
Erfurt la stima di compagni e insegnanti, e gli permettono di farsi alcune
amicizie; infine, le sue cognizioni metafisiche gli permettono di riavvicinarsi
al padre dopo una violenta rottura. Questa Anti-Bildung
disarmonica e frammentaria non ha solo conseguenze negative: la malattia
dell’arte contiene, seppur solo in nuce,
la sua cura.
5. Conclusione
Dopo
lo sprazzo di lucidità emerso nell’ultimo passaggio che ho citato, Anton Reiser
è destinato a cadere ancora una volta nell’illusione teatrale, e a rimanerne,
com’è ovvio, amaramente deluso. Quest’ultima esperienza chiude il romanzo e
getta “post factum una luce di
fallimento anche sui libri precedenti”[57]; l’ultima
delusione rende evidente che Anton Reiser non riuscirà mai a diventare attore e
poeta, perché la forza della metessi
è tale, nella sua personalità sbilanciata, da impedire l’armonioso concorso
delle facoltà umane che nell’estetica moritziana sarà definito come genio
artistico:
Nel
destino di un’altra persona si sentiva, in certo qual modo, liberato da sé
stesso […]. Non era dunque vocazione autentica, né vera predisposizione per la
recitazione che lo attirava, poiché gli importava di più di recitare le scene
della vita dentro di sé piuttosto che fuori di sé. Voleva avere per sé tutto
ciò che l’arte sacrifica.[58]
Si
è vista la genesi di questa natura “egoistica” della propensione all’arte di
Reiser – è un carattere ineliminabile, viste le sue profonde radici
psicologiche. Ciò non significa, tuttavia, che la sua “fuga dalla realtà” lo
abbia lasciato privo di risorse intellettuali; anzi, la tendenza “patologica”
alla lettura della sua giovinezza, evolutasi in sensibilità estetica e capacità
speculativa, gli permette di interpretare la propria vicenda e migliorare la
propria condizione.
Il
genere umano deve elevarsi, perché non ha più lo scopo finale della sua
esistenza al di fuori di sé, ma in sé stesso, e deve dunque farsi compiuto in sé mediante lo
sviluppo di tutte le forze che sono in lui assopite, inclusa la percezione e la
produzione del bello. Di questa compiutezza però fa parte lo stesso individuo
che patisce, il cui patimento, però, una volta passato, trapassa per mezzo
della rappresentazione nel supremo punto di compiutezza del bello. Così la
sofferenza si dissolve nell’apparenza quando non viene più avvertita e sofferta
là dove essa fu effettivamente patita.[59]
Questo
passo tratto da Sull’imitazione
formatrice del bello descrive il funzionamento catartico dell’arte, ma
anche della memoria: la rievocazione mnemonica di una vicenda (di fatto, una
“rappresentazione”) permette di renderla “compiuta in sé”, significante e in
grado di esorcizzare le sofferenze patite. L’escapismo letterario e poi
teatrale di Reiser gli permette di mantenere in vita le “forze assopite” della
sua personalità, destinate altrimenti ad atrofizzarsi; inoltre, gli ha
insegnato progressivamente a vedere la Zusammenhang
della propria esistenza.
In
conclusione, Anton Reiser è un
romanzo di errori, di dissonanza cognitiva, di aspettative illusorie deluse e
punti di vista sbagliati; “il fatto però che noi possiamo anche mancare il giusto punto di vista […] è ciò che dà al
nostro pensiero libertà […]: che noi
possiamo sbagliare è dunque uno dei nostri più nobili privilegi”[60]. Se
l’incompiuto romanzo esaurisce il tema del dilettantismo e ne descrive le
radici psicologiche ed estetiche, se del protagonista si può dire che “la sua
condizione di gran lunga prevalente è l’impotenza”[61], è
anche vero che vi si trova, in qualche misura, una Bildung intellettuale, per quanto incompiuta e quanto mai distante
da qualsivoglia sorta di utopia pedagogica “teleologicamente orientata”[62].
Si tratta di una crescita intellettuale, in grado di condurre il soggetto sulla
via, quasi mai rasserenante nella modernità, dell’autocoscienza e
dell’emancipazione.
Bibliografia
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la rivoluzione francese, Napoli, Guida editori 1969.
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editore 2006.
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Reiser tra psicologia ed estetica, in: Cultura tedesca. - ISSN 1720-514X. -
ISSN 1974-4897. - (2002), pp. 67-84. (Intervento presentato al convegno “Leggere
il romanzo. Prospettive metodologiche e percorsi interpretativi nella
germanistica” tenutosi a Macerata nel 1999.
Gilodi
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Ermeneutica e romanzo tra Illuminismo e Romanticismo, Genova, Il melangolo
2005.
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dell’apprendistato, Milano, Einaudi 2006 (1976).
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di Paolo d’Angelo, Palermo, Aesthetica edizioni 1990.
Todorov
T., Teorie del simbolo. Retorica,
estetica, poetica, ermeneutica: i fatti simbolici nella storia del pensiero
occidentale, Milano, Garzanti 1984 (1977).
[1] Moritz, Anton Reiser, ed. cit., p. 350.
[2] Costazza, Il dilettante inesistente: Anton Reiser tra psicologia ed estetica,
ed. cit., p. 68.
[3] Cometa, L’età di Goethe, ed. cit., p. 94.
[4] Gilodi, Una vita in forma di libro, ed. cit., p. 58.
[5] Ivi, p. 59.
[6] Todorov, Teorie del simbolo, ed. cit., p. 161.
[7] Ivi, p. 201.
[8] Gilodi, op. cit., p. 60.
[9] Moritz, Anton Reiser, ed. cit., p. 12.
[10] Ivi, p. 108.
[11] Non solo nelle introduzioni, ma
anche sparsi nel corso del romanzo, si trovano spesso accenni abbastanza
espliciti a questa concezione ermeneutica, spesso con intento apologetico nei
confronti di come si sta svolgendo la narrazione: “sono stato costretto qui a
fare dei passi indietro nella vita di Reiser e degli altri in avanti se volevo
ricollegare cose che a mio avviso sembravano affini […] e per chi ha capito il
mio intento posso sicuramente fare a meno di chiedere scusa per questi
apparenti salti” (ivi, p. 113); “l’elenco dei pranzi di beneficienza di Reiser
[…] non è così irrilevante come a qualcuno potrà a prima vista sembrare… sono
appunto questi fatti, all’apparenza insignificanti, che fanno la vita e
influiscono maggiormente sul carattere” (ivi, p. 127).
[12] Cometa, op. cit., p. 94.
[13]Da quando, ancora bambino, Reiser
si tormenta con degli aghi per imitare i Santi Padri della chiesa (Moritz, Anton Reiser, p. 22), fino all’azione
che ho citato all’inizio di questo scritto.
[14] Moritz, Anton Reiser, ed. cit., p.18.
[15] Gilodi, op. cit., p. 121.
[16] La normalità borghese definita
come “spazio antropocentrico” e “opzione esplicitamente anti-eroica e prosaica”
(Moretti, Il romanzo di formazione,
ed. cit., p. 13-14) è una realtà sostanzialmente assente nel romanzo di
Moritz..
[17] Baioni., Classicismo e rivoluzione, ed. cit., p. 88.
[18] Moretti, op. cit., p. 4.
[19] Ibid.
[20] Gilodi, op. cit., p. 123.
[21] Moritz, Anton Reiser, p. 82.
[22] Ibid.
[23] Baioni, op. cit., p. 101.
[24] Moritz, Anton Reiser, ed. cit., p. 157.
[25] “Quando si accorgeva che intorno
a lui non c’era altro che grida, ingiurie e dissidi familiari […] correva verso
uno dei suoi libri. E così già da bambino fu allontanato dal suo mondo naturale
e costretto in un mondo ideale di fantasia” (Moritz, Anton Reiser, ed. cit., p. 20). Si noti nuovamente l’opposizione di
sapore rousseauiano tra “mondo naturale” e perversione operata dalla cultura
sul bambino; quando in Reiser iniziano a manifestarsi velleità teatrali, la
situazione si complica in quanto a condurlo verso il “mondo ideale” del teatro
sono le sue “passioni naturali”, innate, che la società non gli permette di
esercitare nella vita reale.
[26] D’Angelo P., Presentazione, in Moritz K. Ph., Scritti di estetica, ed. cit., p. 21.
[27] Ad esempio: “la stima di cui un
ragazzo gode da parte dei suoi compagni è una cosa estremamente importante per
la sua formazione e la sua educazione: a questo fino ad oggi si presta troppo
poca attenzione negli istituti pubblici di educazione” (Moritz, Anton Reiser, ed. cit., p. 184).
[28] “Leggere era diventato ormai per
lui quasi un bisogno, come può essere l’oppio per gli orientali”, ivi, p. 173.
[29] Ivi, p. 306.
[30] Ivi, pp. 306-307.
[31] Si noti in proposito il gioco
ironico sul nome del personaggio: Reiser rimane, più che un vero viaggiatore,
un wanderer, romantico
viandante-escursionista, in quanto il suo viaggio estetizzato di fatto non lo
conduce da nessuna parte. È un gioco di parole simile a quello del cognome di
Wilhelm Meister, il quale, più che essere un maestro che impartisce un’educazione,
ne riceve una: in vari luoghi del romanzo è caratterizzato appunto come
“scolaro” ingenuo che impara con lentezza a comprendere gli altri (Goethe, op. cit., p. 226).
[32] Moritz, Anton Reiser, ed. cit., p. 83.
[33] Ibid.
[34] Ivi, p. 391.
[35] Ivi, p. 329.
[36] “Anche le sue peregrinazioni
erano diventate un labirinto al pari del suo destino; in entrambi i casi non sapeva
più come venirne a capo” (ivi, p. 358).
[37] E anche qui la sfortuna lo
perseguita – memorabile l’episodio in cui tenta maldestramente di rubare del
pane ed è costretto a darsi alla fuga.
[38] Ivi, p. 353.
[39] Ivi, p. 319.
[40] Ivi, p. 320.
[41] Costazza, op. cit., p. 82,
[42] “Chi sa rappresentare solo sé
stesso non è un attore […]. Per esempio, lei ha interpretato assai bene Amleto
e qualche altra parte nella quale il suo carattere, la sua figura e la
momentanea disposizione potevano favorirla. Questo sarebbe sufficiente per un
amatore” (Goethe, Wilhelm Meister, p.
494).
[43] Cfr. supra, p. 5.
[44] D’Angelo, op. cit., p. 26.
[45] Ivi, p. 20.
[46] Todorov, op. cit., p. 207.
[47] Moritz, Anton Reiser, p. 411.
[48] Costazza, op. cit., p. 73.
[49] Ivi, p. 76.
[50] Cfr. supra, p. 4.
[51] Moritz, Anton Reiser, pp. 85-86.
[52] Si legge, nell’introduzione al
quarto libro: “Aveva una certa idea delle cose reali esistenti al mondo, che lo
circondavano, alle quali tra l’altro non voleva rinunciare del tutto, perché
per una volta sentiva la vita e l’esistenza al pari degli altri uomini. Ciò lo
poneva in costante lotta con sé stesso” (ivi, p. 220).
[53] Ivi, p. 373.
[54] Moretti, op. cit., p. 21.
[55] Rispetto alla “summa delle umiliazioni” citata in
precedenza (vedi supra, p. 6) c’è un’importante
differenza: in quel passo, era il narratore a illustrare la Zusammenhang, la connessione tra eventi
che hanno provocato uno sviluppo patologico; in questi ultimi passaggi, invece,
è il personaggio stesso ad avere intuizioni su di sé.
[56] Si noti come, parallelamente,
anche le passeggiate abbiano una analoga funzione terapeutica, che fa da
contraltare a quella escapistica del viaggio che ho descritto in precedenza; di
una passeggiata solitaria di Anton ancora ginnasiale leggiamo: “fece nascere
improvvisamente nel suo cuore più sensazioni e contribuì molto più
all’educazione del suo spirito di tutte le ore che aveva passato a scuola. Fu
questa passeggiata a risvegliare l’orgoglio di Reiser, ad ampliare il suo
orizzonte e a dargli un’idea chiara della sua vera esistenza” (Moritz, Anton Reiser, ed. cit., pp. 233-234.
[57] Costazza, op. cit., p. 83.
[58] Moritz, Anton Reiser, ed. cit., p. 345.
[59] Moritz, Scritti di estetica, ed. cit., p. 87.
[60] Ivi, p. 52.
[61] Gilodi, op. cit., p. 126.
[62] Ivi, p. 135.