lunedì 8 aprile 2013

Anton Reiser: prospettive su un dilettante



Già l’espressione del bibliotecario non prometteva nulla di buono e rivolgendosi a Reiser con parole fredde, gli disse che gli dispiaceva di dovergli comunicare che non si poteva far nulla per il suo ingaggio a teatro e che non poteva fare nemmeno un provino.
[…] Reiser, paralizzato nel corpo e nella mente, non riuscì a dire una parola, ma se ne andò in fondo al teatro dove l’ultimo sipario confina con la parete nuda e diede una testata al muro in preda alla disperazione perché ora era davvero infelice, doppiamente infelice.[1]
Questo masochistico atto sembrerebbe riassumere, con forte valenza metaforica, l’aspetto centrale dell’Anti-Bildungsroman autobiografico di Karl Philipp Moritz: il giovane protagonista, dopo un viaggio spossante condotto in condizioni materiali disperate, e settimane di umiliante attesa, vede distrutte in un attimo le aspirazioni che gli avevano permesso fino ad allora di sopportare il suo stato, e va a sbattere (letteralmente) contro la nuda realtà, la parete esterna del teatro, una volta superati i sipari e le quinte delle sue autoillusioni.
In realtà il quadro è più complesso. Basta ripercorrere la rassegna, in un intervento di Alessandro Costazza, delle numerose e diverse interpretazioni di cui il romanzo è stato oggetto in particolare nel corso del ventesimo secolo, per rendersi conto di quanto in realtà quest’opera sia poliedrica e difficile da ridurre a un solo tema.
Dalle vecchie letture che vedevano sostanzialmente l’Anton Reiser come fonte storica sulle pratiche pietistiche del tardo Settecento si è passati, negli anni sessanta e settanta dello scorso secolo, a enfatizzare la carica di critica sociale e anti-religiosa presente nel romanzo. Successivamente, a suscitare l’attenzione dei critici è stato il legame tra “il primo romanzo psicologico della letteratura tedesca”[2] e l’antropologia dell’epoca, di cui l’autore era esponente militante con al sua rivista di psicologia sperimentale.
Accanto agli studi che analizzavano il romanzo in relazione alla nascita della moderna psicologia empirica, hanno iniziato ad avere luogo i tentativi di catalogare l’Anton Reiser da un punto di vista formale: visto di volta in volta come capostipite del romanzo autobiografico o esponente precoce dell’Entwicklungsroman e del Künstlerroman, si è dimostrato refrattario alle descrizioni sommarie. Particolarmente significativo l’accostamento col Bildungsroman, del quale rappresenta, più che un precedente, una negazione, in virtù dell’andamento ricorsivo e privo di vera evoluzione della vicenda, e della realtà sociale degradata che ne costituisce l’ambientazione – risale a Schrimpf la formulazione “Anti-Bildungsroman”.
A quest’ultimo tentativo di definizione si dedica Costazza, enumerando i critici che hanno esaminato le varie sfaccettature della “tragedia del dilettante”; di volta in volta, sono stati enfatizzati aspetti anche contraddittori: la denuncia etica (in Müller) o estetica (in Vaget) del “falso istinto artistico” che conduce al dilettantismo, la portata rivoluzionaria e liberatoria del rapporto con l’arte (Allkemper), la reale evoluzione artistica e culturale che sta dietro all’escapismo di Reiser (Vietta). Come si vede, le possibili implicazioni del romanzo di Moritz in relazione al quadro più ampio del Bildungsroman restano numerose e controverse. Soprattutto, è riduttiva un’interpretazione che ponga Anton Reiser unicamente in relazione alla forma romanzo elaborata da Wieland. Esistono consistenti elementi di eterogeneità: nella genesi del romanzo di Moritz ci fu di certo, come fa notare Cometa[3], un legame con la riflessione autobiografica già avviata dall’autore nella sua prima opera memorialistica sul viaggio in Inghilterra. Ancor più pregnante è il rapporto con l’attività di psicologo e pedagogo dell’autore.
1.      Diagnosi narrativa
La rivista Gnothi Sauton, fondata da Moritz nel 1783, due anni prima del primo libro di Anton Reiser, era programmaticamente dedita alla “conoscenza dell’anima basata sull’esperienza”[4], alla creazione di un nuovo terreno disciplinare al confine tra filosofia e medicina, al fine di diffondere una “autocoscienza laica”[5] di stampo illuminista. In altre parole, si trattava di costruire un nuovo tipo di consapevolezza psicologica, non fondata sulle vecchie costruzioni sistematiche, ma sull’intuizione e sull’osservazione diretta; tali studi porranno le basi di un nuovo approccio ermeneutico, successivamente sviluppato in relazione alla fruizione e produzione artistica nella nascente estetica moritziana (il saggio Sul concetto del compiuto in sé stesso è del 1785). Si tratta di un progetto estetico che, per quanto sviluppato solo parzialmente e in modo piuttosto asistematico, ha fatto grandi passi rispetto a quello di Baumgarten, “ricalcato sulla retorica”[6], e che per Todorov contiene “in embrione tutta la dottrina estetica del romanticismo”[7].
Nel contesto di Gnothi Sauton, interessa evidenziare come questa nascente o nascitura ermeneutica focalizzata sui sensi e sull’intuizione si concretizzi in un’attenzione senza precedenti al particolare, al dettaglio concreto e apparentemente insignificante, che diventa rivelatore una volta inserito in una rete di relazioni. Più che teorici illustri e personaggi dell’establishment culturale, i collaboratori ideali per Moritz sono in primo luogo osservatori scrupolosi: predicatori, giudici, militari, chiunque per professione si trovi a contatto con casi psicologici che permettano di indagare i confini tra sanità e follia, ovverossia la “varietà delle disposizioni e delle caratteristiche che possono evolvere verso la malattia”[8]; queste tendenze esigono, per essere svelate, una attenta e quotidiana osservazione dei pazienti, in grado di sfociare in una ricomposizione foriera di senso della vicenda umana che sta dietro ai casi patologici. Il risultato auspicato e raggiunto è di raccogliere, anche grazie alla collaborazione del pubblico, una messe di dettagliati racconti di vicende individuali, un repertorio di testimonianze dirette, che permetta di gettare luce su verità universali cogliendo le relazioni tra un’infinità di particolari apparentemente trascurabili. Alla luce di questo, si leggano le introduzioni alle prime due parti di Anton Reiser:
Chi conosce lo svolgersi delle vicende umane e sa quanto spesso, nel corso della vita, possa diventare importante ciò che da principio gli era sembrato piccolo e insignificante, non se ne vorrà per l’apparente futilità di molti fatti qui narrati.[9].
Chi rivisita attentamente il proprio passato, all’inizio spesso crede di non vedere altro che cose prive di senso, fili spezzati, confusione e tenebre. Ma quanto più il suo sguardo vi si sofferma, tanto più le tenebre si diradano, ciò che appariva privo di senso a poco a poco invece lo riacquista, i fili spezzati si riannodano nuovamente, ciò che era confuso ed intricato si riordina… e la dissonanza, quasi inavvertitamente, si trasforma in melodiosa armonia[10].
La consonanza con le teorie che governano la rivista sono evidenti. L’intento di attuare una ricostruzione del senso generale a partire dal caos opaco dei dettagli quotidiani, analizzati minuziosamente in tutta la loro banalità, trova nel romanzo autobiografico la sua declinazione più completa e più ampia[11]. Quale caso, d’altronde, poteva essere più vicino agli occhi dell’osservatore della sua propria vicenda personale? Se è vero che si tratta pur sempre di “un romanzo di formazione – un archetipo del genere – in cui convergono elementi autobiografici, stilizzazione romanzesca ed elementi metatestuali in cui il narratore si distanzia dalla propria stessa biografia”[12], il dato fondamentale è che la narrazione deve la sua impostazione agli studi psicologici dell’autore.
Nei primi tre libri si costruisce, in particolare, una diagnosi di come l’ambiente familiare, e poi quello scolastico, la religione e la povertà abbiano innescato nel giovanissimo Anton una serie di meccanismi di compensazione e di pratiche masochistiche[13] che gli impediscono ogni forma di socializzazione, spingendolo a praticare una forma estrema di escapismo.
Il metodo è rigoroso, e consiste, come detto, nella registrazione meticolosa dei minuti fatti che vanno a plasmare la psiche del “paziente”. Si parte, significativamente, con una breve storia del quietismo, le cui dottrine, riassunte nella mortificazione delle passioni e dell’individualità, condurranno il padre di Anton a distruggere la pace domestica e a infliggere al figlio una prima educazione severa e frammentaria. L’instabilità emotiva e il disagio che conseguono dalle liti tra i genitori, insieme a una straziante ferita al piede la cui guarigione richiede tre anni, portano il bambino a rifugiarsi il prima possibile nel mondo illusorio della lettura, e alle pratiche mortificanti imposte o suscitate dal credo del padre. È dalla prima infanzia che Reiser conosce la joy of grief che farà di lui un misantropo e un malinconico.
Su queste premesse poggia la successiva alienazione sociale del ragazzo: “come era possibile che potesse nascere in lui il desiderio intenso per un trattamento affettuoso, dal momento che non vi era mai stato abituato e quindi non poteva averne la benché minima idea?”[14]; questa domanda retorica illustra la radice del circolo vizioso che segnerà l’adolescenza del “paziente”  provocando in lui una “incapacità strutturale di socializzazione”[15]: il rifiuto degli altri spingerà Anton a isolarsi sempre di più nelle sue fantasie teatrali e letterarie, il che porterà i suoi compagni a escluderlo ancora più aspramente esasperando ulteriormente la sua reazione.
Il circolo vizioso, in effetti, è un’immagine che illustra molto bene l’andatura narrativa del romanzo. Interessante il paragone con il Wilhelm Meister: la trama di quest’ultimo potrebbe essere riassunta come una caduta, dalla situazione di normalità[16] iniziale, nel mondo illusorio del teatro, seguita da un graduale ritorno al reale sotto la guida della “Società della Torre”, per finire in un ripristino (per quanto ambiguo e parziale) della normalità borghese attraverso il matrimonio. Nell’Anton Reiser questo meccanismo sembra ripetersi all’infinito e la situazione non si risolve, per due ragioni: la situazione di partenza non è in nessun modo definibile come una normalità accettabile, a cui sia auspicabile un ritorno; e in secondo luogo è assente una qualsivoglia entità benefica ed educatrice in grado di influire efficacemente sul protagonista; di conseguenza, quest’ultimo continua a rimbalzare tra realtà ostile e frustranti illusioni. Se Goethe “assume [..] la cultura borghese in sé a problema centrale del romanzo”[17], per Moritz la finalità è un’altra: anzi che un’opera che ha la giovinezza “come determinazione sostanziale”[18] e l’”incerta esplorazione dello spazio sociale”[19] come obiettivo”, abbiamo di fronte “una sorta di compendio paradigmatico delle numerose patologie passate in rassegna dalla rivista”[20], un viaggio nell’interiorità che parte dall’infanzia e applica i metodi della psicologia empirica.
2.      Escapista
Nel corso del romanzo, per gran parte del tempo il giovane Reiser non fa che elaborare strategie sempre meno ingenue per nascondersi la traumatica realtà della sua esistenza, che puntualmente falliscono. Il narratore le descrive una ad una, tornando spesso sui singoli temi, disegnando quello che si potrebbe chiamare l’”albero genealogico” del più macroscopico errore di Anton Reiser: quello di credersi attore.
La prima illusione vera e propria è quella della religione: cresciuto sotto la guida dispotica del padre, condizionato dalle dottrine di Mme Guion e Von Fleischbein, nei suoi primi anni Reiser cerca di rendere sopportabile la sua condizione e ovviare alle carenze affettive attraverso la fedeltà ai principi quietistici; la loro severità, unità all’inconciliabilità col più blando luteranesimo propugnato dalla madre, e al coacervo di nozioni mitologiche e religiose acquisite con le prime, caotiche letture, trasforma Reiser in un “perfetto ipocondriaco”[21], confuso su sé stesso e sul mondo e assalito da lancinanti sensi di colpa per i motivi più futili. Qui il tono della narrazione è spiccatamente illuminista e quasi satirico: una natura buona, di stampo rousseauiano, pone rimedio ai danni causati dalle mancanze di cultura e società, dissipa i superstiziosi timori di morte inculcati dalla madre di Anton e dai religiosi: “la primavera tornò […]. Anton sentì dentro di sé un nuovo impulso vitale; si lavava e le sue mani tornavano a cacciare di nuovo vapore, i cani non ululavano più, la gallina cessò di cantare e il pastore Paulmann non tenne più prediche sulla morte”[22].
Reiser, una volta sfuggito al massacrante apprendistato presso il quietista cappellaio Lobenstein, “attraverso l’arte secolarizza la propria religiosità pietistica”[23]; le prediche del pastore Paulmann hanno mostrato al giovane un nuovo, molto più potente mezzo di compensazione: la recitazione. Immedesimandosi nel carismatico pastore, declamando passioni che non sono sue e pertanto gli permettono di dimenticare temporaneamente la sua triste condizione, Reiser impara una nuova strategia di autoillusione e si distanzia dalla rigida, anaffettiva ortodossia quietista. Ulteriore conseguenza, quando a scuola vengono organizzati esercizi di recitazione, pare emergere in Anton una sorta di disposizione naturale verso tale attività:
Per sé voleva una parte molto passionale, nella quale potesse intervenire con grande pathos e rappresentare una serie di sentimenti, che gli piacevano tanto, e che tuttavia nel suo mondo reale dove tutto era così arido, così misero, non poteva avere. Era molto naturale che desiderasse ciò; sentimenti di amicizia, di gratitudine, di generosità e di nobile fermezza sonnecchiavano inermi dentro di lui; […] Nessuna meraviglia che cercasse di tornare a vivere in un mondo ideale e di seguire i suoi sentimenti naturali![24]
Come si vede, la predisposizione naturale non è verso il teatro, ma verso l’escapismo; Anton Reiser, abituato fin dall’infanzia alle fughe in un “mondo ideale”[25], si illude che la sua ingenua tendenza all’immedesimazione negli altri sia talento artistico – e invece non c’è nulla di più distante dalla “forza attiva”, “capacità ‘totalizzante’”[26] che nell’estetica moritziana sarà alla base dell’imitazione formatrice del bello.
Parallelamente, i successi scolastici diventano un’altra ambigua fonte di soddisfazioni. L’ambiguità sta nel fatto che il riconoscimento sociale dato dal plauso dei docenti suscita l’invidia dei compagni di Reiser. Questo, nel soffocante clima pedagogico in cui si svolgono le due parti centrali del romanzo, conduce a un inevitabile affermarsi e ripetersi del circolo vizioso sopra descritto, fatto di antisocialità e isolamento, illustrato dall’autore in alcuni dei passi più esplicitamente polemici del romanzo[27]. Avviene una graduale trasformazione che ci viene descritta in tute le sue sfumature: il ragazzo povero che ha l’unico obiettivo di mettersi in luce di fronte alle autorità scolastiche nella speranza di trovare un mecenate diventa un asociale, reso apatico da letture a cui si è assuefatto a tal punto da poter essere paragonato a un tossicodipendente[28]. Quasi tutti i pochi momenti di gioia nella vita reale gli provengono – se si escludono le soddisfazioni derivanti dalla sua “attività letteraria” entro una piccola cerchia di outsider della cultura – da occasionali infrazioni delle regole: fatti minimi, come una sbornia o un furto di frutta, che nella fantasia di Reiser diventano colpe gravissime, ma che gli valgono anche la stima dei compagni, similmente ingigantita nella sua interiorità.
Le mille piccole umiliazioni che costellano l’adolescenza di Anton vengono puntualmente riportate, e vanno a comporre un elenco che di volta in volta si ripresenta accresciuto; il narratore ci mostra come fatti di importanza apparentemente scarsa , ponendosi in relazione l’uno con l’altro nella memoria, si ingigantiscano nella psiche malata del protagonista, fino a sfociare in crisi che lo sconvolgono e lo paralizzano:
Questo riverisco pieno di premura [il saluto di un giovane aristocratico al quale Reiser impartisce lezioni private, interpretato dal protagonista come offensivo invito ad andarsene] si associò all’improvviso nella sua mente allo stupido ragazzo! dell’ispettore di seminario, all’io non parlo certamente di lui del commerciante, al par nobile fratrum dei liceali e all’espressione questa è una vera sciocchezza! del rettore. Per qualche istante si sentì come annientato, tutte le sue forze spirituali erano paralizzate […]. Pianse […] lacrime amare di sconforto e di tedio. Tutto gli apparve ad un tratto in una luce triste e malinconica; […] tutto questo a causa di una espressione eccessivamente premurosa.[29]
A questa summa delle umiliazioni legate alla condizione sociale del protagonista fa seguito il passo più esplicitamente critico in senso politico del romanzo:
In fondo fu il sentimento dell’umanità oppressa dalle relazioni borghesi ad impadronirsi di lui in questa occasione e fargli odiare la vita; […] che cosa aveva mai commesso di male prima della sua nascita per non essere diventato anche lui uomo di cui molte altre persone si prendono cura? […] Perché proprio lui aveva avuto il ruolo di chi lavora e un altro di chi paga? Se le sue condizioni lo avessero reso felice e contento, avrebbe visto dovunque ordine e finalità, ma ora tutti gli sembrava contraddizione, disordine e confusione.[30]
Quando quest’ultima consapevolezza si somma a tutte le ragioni emotive e psicologiche dell’alienazione di Reiser, la paralisi si trasforma in determinazione ad abbandonare a tutti i costi la sua condizione.
Il viaggio si configura come l’ennesima modalità di fuga dal reale messa a punto dell’escapista Reiser[31]. Fin dalla prima parte del romanzo, l’”idea del luogo” è posta in stretta relazione alla consapevolezza di sé: “le singole strade e le case che Anton rivedeva ogni giorno costituivano un punto fermo nelle sue fantasie, al quale si legava tutto ciò che nella sua vita era in continuo movimento, che dava unità e verità, e attraverso cui egli distingueva la veglia dal sogno”[32]. Il concetto è persino oggetto di una parentesi aneddotico-teorica il cui protagonista è “uno dei nostri più grandi filosofi oggi vivente”[33], del quale si riporta un’esperienza infantile al fine di sottolineare la forte connessione la percezione spaziale e coscienza di sé – al punto che la prima è quasi un prerequisito della seconda.
Così si spiega il forte streben che spinge Anton prima a vagabondare tra Hannover e Brema, e poi a fuggire per davvero alla volta di Erfurt e della vita itinerante dell’attore: abbandonare un luogo significa potersi dimenticare temporaneamente la propria identità. Per Anton in viaggio o a passeggio, “appena il là diventava qui, perdeva anche tutto il suo fascino e la fonte di gioia si esauriva”[34]. A ciò si aggiunga il fatto che lasciare Hannover, luogo di infinite umiliazioni e sofferenze, permette a Reiser di sottrarsi alla cerchia esigua che ha finora circondato la sua disgraziata esistenza. L’anonimia del viandante gli concede, una volta cancellata la sua penosa identità, l’illusione di poter ricostruire da capo i suoi rapporti sociali; e gli permette di immedesimarsi con un illustre precedente: “l’immagine del viandante omerico […] gli tornava sempre in mente e persino quando mentiva le sue menzogne coincidevano quasi alla perfezione col suo modello poetico, che vede al suo fianco Minerva sorridergli consenziente”[35]. Inutile dire che i suoi grandiosi viaggi si riducono in patetici vagabondaggi senza meta[36], nel corso dei quali Anton Reiser, affamato e sfinito, diventa quasi personaggio picaresco[37].
3.      Dilettante
Per quanto riguarda il teatro, si è già visto come la malattia della falsa vocazione, o dilettantismo a dir si voglia, abbia subdolamente sviluppato le sue radici nella psiche del protagonista: la tendenza alla fuga da sé attraverso l’immedesimazione, nata coi remoti traumi infantili, si alimenta prima di letture e prediche, poi dei primi spettacoli teatrali ammirati o fortuitamente allestiti, fino a diventare autentica aspirazione ad abbracciare la carriera dell’attore. Le profonde radici psicologiche del fenomeno spiegano la determinazione di cui Anton Reiser dà prova a più riprese nel perseguire il suo progetto: ad animarlo è “un coraggio davvero eroico”[38], che conduce il giovane a sfidare tutte le insormontabili avversità che gli precludono l’agognata professione.
L’introduzione di quest’ultimo libro si apre con la domanda cruciale “se un giovane sia in grado o meno di scegliere da solo la sua professione”[39]; il sottinteso è, chiaramente, l’analisi psicologica delle illusioni teatrali di cui la gioventù tedesca era preda all’epoca. Visti i suoi presupposti esistenziali, Reiser è soggetto ideale per tale indagine, in quanto in lui la presunta vocazione è talmente forte da “produrre gli stessi fenomeni che si manifestano nel vero genio artistico”[40].
La sua propensione al teatro si distingue da quella degli altri personaggi, che pure ne conoscono una simile; in particolare tra lui e Iffland, che pure scappa da casa per fare l’attore (e lo fa con successo) esiste una differenza che è stata paragonata a quella che distingue, nel Wilhelm Meister, Aurelie da Serlo:
Mentre Serlo ha […] analogie con la rappresentazione di Iffland […], caratterizzato dalla mancanza di una sensibilità profonda, che dispone però di una grandissima capacità imitativa, la sorella Aurelie recita invece solo identificandosi totalmente con i personaggi teatrali, fino a non distinguere più tra arte e vita.[41]
Ciò non significa che l’”attore sentimentale” sia destinato a non imbracciare la professione – Aurelie lo dimostra, pur finendo per autodistruggersi a causa della sua passionalità. Anzi, Si potrebbe anche dire che Anton Reiser è un attore più professionale di Wilhelm Meister: quest’ultimo viene lucidamente apostrofato da Jarno perché incapace di imitare realmente le passioni altrui[42], invece Reiser riesce ad avere successo anche in ruoli comici e addirittura femminili.
Alcuni critici hanno visto, nella quarta parte dell’Anton Reiser, una svolta rispetto alle prime tre: dopo il viaggio in Italia, l’incontro con Goethe e le formulazioni estetiche più estese e definite, Moritz avrebbe parzialmente abbandonato l’approccio del pedagogo-psicologo per dedicarsi al suo personaggio-alter ego da esteta, intento dunque a criticarne la vocazione sulle basi della filosofia dell’arte. Gli scritti estetici di Moritz e l’introduzione al quarto libro lo fanno pensare: come ho già accennato[43], la vocazione teatrale di Reiser sembra predestinata al fallimento, in quanto egli confonde “la semplice facoltà di percepire il bello e la vera facoltà di produrlo”[44], la “forza attiva” in grado di unificare le più facoltà umane (Empfindungskraft, Bildungskraft, Denkkraft); questa forza “piuttosto misteriosa”[45] è l’unica a rendere possibile all’uomo la vera attività artistica, che implica una imitazione del processo creativo della natura, e non di semplici oggetti o passioni: “se c’è imitazione nelle arti, essa è nell’attività del creatore: non è l’opera che copia la natura, ma l’artista, e lo fa producendo opere”[46]. Il fallimento dell’affermazione artistica di Reiser sarebbe dovuto al fatto che egli non è dotato della forza attiva unificante che caratterizza il genio, ma solo delle singole facoltà che gli permettono di pensare filosoficamente e di apprezzare l’arte; egli non è in grado di imitare l’attività creatrice della natura, ossia di creare oggetti che racchiudano in sé stessi la propria finalità e siano pertanto autenticamente belli.
In verità, la situazione è più complicata. Sono da prendere in considerazione le ampie ragioni accidentali del fallimento di Reiser: le disastrose condizioni sociali, la povertà, il suo aspetto fisico potrebbero bastare a spiegare il mancato successo come attore. Si aggiunga che, nelle rare occasioni in cui a Reiser è concesso di recitare senza dover affrontare gravi handicap, il risultato non è affatto deludente, al punto di procurargli una certa fama tra gli studenti di Hannover, e persuadere addirittura uno dei suoi tutori a permettergli di seguire la sua vocazione[47]. Costazza, nel suo intervento, smonta uno ad uno i “sintomi della mancanza di ‘vero istinto poetico’”[48] enumerati da Moritz in un passo dell’Anton Reiser, in quanto di fatto non attinenti alla produzione artistica del protagonista del romanzo, la quale peraltro riscuote presso compagni e maestri una “diffusa e unanime approvazione”[49]. Se Reiser non può diventare un artista, non è dunque solo colpa sua.
4.      Malattia e cura
Tirando le fila, la malattia di Anton Reiser si configura dunque come aspirazione irrazionale a un desiderio irrealizzabile, che lo porta ad agire in modo deviato rispetto alla normalità. Una volta appurato che nella vita di Reiser non esiste nulla di simile alla “normalità” da cui vuole fuggire, ad esempio, Wilhelm Meister[50], e che l’irrazionale desiderio di diventare attore è in realtà profondamente radicato nella sua psiche, connesso a una più generale tendenza all’astrarsi dall’ambiente ostile, si palesa un’altra faccia della medaglia: il ruolo terapeutico dell’arte.
La tendenza pietistica all’autoanalisi, gradualmente secolarizzata e coadiuvata da letture che vanno dai classici latini a Shakespeare, conduce Anton Reiser a definire sempre di più un metodo ermeneutico che gli permette di dare un senso alla propria disarmonica vicenda. Fin da ragazzino, in alcuni momenti fortunati riesce ad avere sulla sua vita una “prospettiva totale” che gli consente di analizzare la sua situazione e prendere decisioni:
Per avere un’immagine immediata della totalità della sua vita attuale era necessario recidere in certo qual modo tutti i fili che tenevano sempre fissata la sua attenzione a ciò che in essa era momentaneo, quotidiano e frammentario […]. Era proprio la prospettiva in cui si trovò quando, per caso, uscì fuori dalla porta dalla quale era entrato quasi un anno e mezzo prima, seguendo l’ampio stradone alberato, e aveva visto la sentinella andare su e giù […]. Tutto quello che c’era in mezzo si concentrò nella sua immaginazione, si addensò come ombre, divenne simile ad un sogno. Perché lo stare su quel ponte a guardare in alto verso quell’alto bastione, dove si trovava la sentinella, si ricollegava strettamente ad un anno e mezzo prima […]. L’intensità con cui immaginava e ricordava il luogo fece sì che il ricordo  dell’intervallo di tempo che era trascorso scomparisse o si indebolisse […]. Da quel giorno in poi si ripropose fermamente di non restare ancora a lungo nella casa di Lobenstein, a qualsiasi costo.[51]
I passi del romanzo in cui il protagonista attua un’autoanalisi di questo stampo sono numerosi, e si intensificano nell’ultimo libro, nel quale cresce sempre di più la tensione tra l’autocoscienza di Reiser e la sua volontà di diventare attore[52]. Nel corso della sua vita da universitario a Erfurt, Reiser arriva addirittura a prospettarsi un futuro “normale” che gli era sempre parso inesorabilmente precluso:
All’improvviso l’idea di una vita improvvisamente tranquilla tornò a farsi prepotente […]. La sua carriera di studente, infatti, qui sarebbe sfociata in quella di insegnante e quindi avrebbe raggiunto così la meta di tutti i suoi desideri e delle sue speranze […]. Quando passeggiava intorno alle case facendo il giro della città, si rendeva chiaramente conto di essersi liberato, grazie ai suoi sforzi, da condizioni insopportabili e di aver cambiato la sua posizione nel mondo grazie alle proprie forze […]. A poco a poco si destavano tutti i ricordi del passato; il presente non soffocava la sua esistenza ma abbracciava tutto ciò che era ormai scomparso.
E questi erano i momenti più felici della sua vita: solo allora la sua stessa esistenza cominciava ad interessarlo perché la considerava parte di un contesto più ampio, e non isolata e frammentata.[53]
Il malinconico misantropo intrappolato nelle sue stesse fantasie è irriconoscibile: Anton Reiser pare quasi arrivato ad “apprendere […], a indirizzare ‘la trama della propria vita’ in modo che ogni momento rinsaldi il proprio senso di appartenenza ad una più vasta comunità”[54], ossia quello che per Franco Moretti è obiettivo del Bildungsroman; per la prima volta Reiser sente di poter fare a tutti gli effetti parte della società, e sembra pronto a rinunciare alle sue fantasie: è pervenuto a ciò ricostruendo, gradualmente, la Zusammenhang, l’armonia celata nelle dissonanze della sua esistenza[55]. È stata la sua attività intellettuale, nata come tendenza escapistica, a permettergli di raggiungere questo risultato, migliorando la sua condizione sociale (Reiser è infatti pur sempre riuscito ad accedere all’università, risultato non da poco viste le scoraggianti premesse) e dandogli consapevolezza di essa[56]; inoltre le sue competenze (dopo averlo emarginato ad Hannover) gli valgono a Erfurt la stima di compagni e insegnanti, e gli permettono di farsi alcune amicizie; infine, le sue cognizioni metafisiche gli permettono di riavvicinarsi al padre dopo una violenta rottura. Questa Anti-Bildung disarmonica e frammentaria non ha solo conseguenze negative: la malattia dell’arte contiene, seppur solo in nuce, la sua cura.
5.      Conclusione
Dopo lo sprazzo di lucidità emerso nell’ultimo passaggio che ho citato, Anton Reiser è destinato a cadere ancora una volta nell’illusione teatrale, e a rimanerne, com’è ovvio, amaramente deluso. Quest’ultima esperienza chiude il romanzo e getta “post factum una luce di fallimento anche sui libri precedenti”[57]; l’ultima delusione rende evidente che Anton Reiser non riuscirà mai a diventare attore e poeta, perché la forza della metessi è tale, nella sua personalità sbilanciata, da impedire l’armonioso concorso delle facoltà umane che nell’estetica moritziana sarà definito come genio artistico:
Nel destino di un’altra persona si sentiva, in certo qual modo, liberato da sé stesso […]. Non era dunque vocazione autentica, né vera predisposizione per la recitazione che lo attirava, poiché gli importava di più di recitare le scene della vita dentro di sé piuttosto che fuori di sé. Voleva avere per sé tutto ciò che l’arte sacrifica.[58]
Si è vista la genesi di questa natura “egoistica” della propensione all’arte di Reiser – è un carattere ineliminabile, viste le sue profonde radici psicologiche. Ciò non significa, tuttavia, che la sua “fuga dalla realtà” lo abbia lasciato privo di risorse intellettuali; anzi, la tendenza “patologica” alla lettura della sua giovinezza, evolutasi in sensibilità estetica e capacità speculativa, gli permette di interpretare la propria vicenda e migliorare la propria condizione.
Il genere umano deve elevarsi, perché non ha più lo scopo finale della sua esistenza al di fuori di sé, ma in sé stesso, e deve dunque farsi compiuto in sé mediante lo sviluppo di tutte le forze che sono in lui assopite, inclusa la percezione e la produzione del bello. Di questa compiutezza però fa parte lo stesso individuo che patisce, il cui patimento, però, una volta passato, trapassa per mezzo della rappresentazione nel supremo punto di compiutezza del bello. Così la sofferenza si dissolve nell’apparenza quando non viene più avvertita e sofferta là dove essa fu effettivamente patita.[59]
Questo passo tratto da Sull’imitazione formatrice del bello descrive il funzionamento catartico dell’arte, ma anche della memoria: la rievocazione mnemonica di una vicenda (di fatto, una “rappresentazione”) permette di renderla “compiuta in sé”, significante e in grado di esorcizzare le sofferenze patite. L’escapismo letterario e poi teatrale di Reiser gli permette di mantenere in vita le “forze assopite” della sua personalità, destinate altrimenti ad atrofizzarsi; inoltre, gli ha insegnato progressivamente a vedere la Zusammenhang della propria esistenza.
In conclusione, Anton Reiser è un romanzo di errori, di dissonanza cognitiva, di aspettative illusorie deluse e punti di vista sbagliati; “il fatto però che noi possiamo anche mancare il giusto punto di vista […] è ciò che dà al nostro pensiero libertà […]: che noi possiamo sbagliare è dunque uno dei nostri più nobili privilegi”[60]. Se l’incompiuto romanzo esaurisce il tema del dilettantismo e ne descrive le radici psicologiche ed estetiche, se del protagonista si può dire che “la sua condizione di gran lunga prevalente è l’impotenza”[61], è anche vero che vi si trova, in qualche misura, una Bildung intellettuale, per quanto incompiuta e quanto mai distante da qualsivoglia sorta di utopia pedagogica “teleologicamente orientata”[62]. Si tratta di una crescita intellettuale, in grado di condurre il soggetto sulla via, quasi mai rasserenante nella modernità, dell’autocoscienza e dell’emancipazione.



Bibliografia
Baioni G., Classicismo e rivoluzione. Goethe e la rivoluzione francese, Napoli, Guida editori 1969.
Cometa M., L’età di Goethe, Roma, Carocci editore 2006.
Costazza A., Il dilettante inesistente: Anton Reiser tra psicologia ed estetica, in: Cultura tedesca. - ISSN 1720-514X. - ISSN 1974-4897. - (2002), pp. 67-84. (Intervento presentato al convegno “Leggere il romanzo. Prospettive metodologiche e percorsi interpretativi nella germanistica” tenutosi a Macerata nel 1999.
Gilodi R., Una vita in forma di libro. Ermeneutica e romanzo tra Illuminismo e Romanticismo, Genova, Il melangolo 2005.
Goethe W., Wilhelm Meister. Gli anni dell’apprendistato, Milano, Einaudi 2006 (1976).
Moretti F., Il romanzo di formazione, Torino, Einaudi 1999 (1987).
Moritz K. Ph., Anton Reiser, a cura di Mario Regina, L’editore 1994. http://jsq.humnet.unipi.it/Moritz.pdf
Moritz K. Ph., Scritti di estetica, a cura di Paolo d’Angelo, Palermo, Aesthetica edizioni 1990.
Todorov T., Teorie del simbolo. Retorica, estetica, poetica, ermeneutica: i fatti simbolici nella storia del pensiero occidentale, Milano, Garzanti 1984 (1977).


[1] Moritz, Anton Reiser, ed. cit., p. 350.
[2] Costazza, Il dilettante inesistente: Anton Reiser tra psicologia ed estetica, ed. cit., p. 68.
[3] Cometa, L’età di Goethe, ed. cit., p. 94.
[4] Gilodi, Una vita in forma di libro, ed. cit., p. 58.
[5] Ivi, p. 59.
[6] Todorov, Teorie del simbolo, ed. cit., p. 161.
[7] Ivi, p. 201.
[8] Gilodi, op. cit., p. 60.
[9] Moritz, Anton Reiser, ed. cit., p. 12.
[10] Ivi, p. 108.
[11] Non solo nelle introduzioni, ma anche sparsi nel corso del romanzo, si trovano spesso accenni abbastanza espliciti a questa concezione ermeneutica, spesso con intento apologetico nei confronti di come si sta svolgendo la narrazione: “sono stato costretto qui a fare dei passi indietro nella vita di Reiser e degli altri in avanti se volevo ricollegare cose che a mio avviso sembravano affini […] e per chi ha capito il mio intento posso sicuramente fare a meno di chiedere scusa per questi apparenti salti” (ivi, p. 113); “l’elenco dei pranzi di beneficienza di Reiser […] non è così irrilevante come a qualcuno potrà a prima vista sembrare… sono appunto questi fatti, all’apparenza insignificanti, che fanno la vita e influiscono maggiormente sul carattere” (ivi, p. 127).
[12] Cometa, op. cit., p. 94.
[13]Da quando, ancora bambino, Reiser si tormenta con degli aghi per imitare i Santi Padri della chiesa (Moritz, Anton Reiser, p. 22), fino all’azione che ho citato all’inizio di questo scritto.
[14] Moritz, Anton Reiser, ed. cit., p.18.
[15] Gilodi, op. cit., p. 121.
[16] La normalità borghese definita come “spazio antropocentrico” e “opzione esplicitamente anti-eroica e prosaica” (Moretti, Il romanzo di formazione, ed. cit., p. 13-14) è una realtà sostanzialmente assente nel romanzo di Moritz..
[17] Baioni., Classicismo e rivoluzione, ed. cit., p. 88.
[18] Moretti, op. cit., p. 4.
[19] Ibid.
[20] Gilodi, op. cit., p. 123.
[21] Moritz, Anton Reiser, p. 82.
[22] Ibid.
[23] Baioni, op. cit., p. 101.
[24] Moritz, Anton Reiser, ed. cit., p. 157.
[25] “Quando si accorgeva che intorno a lui non c’era altro che grida, ingiurie e dissidi familiari […] correva verso uno dei suoi libri. E così già da bambino fu allontanato dal suo mondo naturale e costretto in un mondo ideale di fantasia” (Moritz, Anton Reiser, ed. cit., p. 20). Si noti nuovamente l’opposizione di sapore rousseauiano tra “mondo naturale” e perversione operata dalla cultura sul bambino; quando in Reiser iniziano a manifestarsi velleità teatrali, la situazione si complica in quanto a condurlo verso il “mondo ideale” del teatro sono le sue “passioni naturali”, innate, che la società non gli permette di esercitare nella vita reale.
[26] D’Angelo P., Presentazione, in Moritz K. Ph., Scritti di estetica, ed. cit., p. 21.
[27] Ad esempio: “la stima di cui un ragazzo gode da parte dei suoi compagni è una cosa estremamente importante per la sua formazione e la sua educazione: a questo fino ad oggi si presta troppo poca attenzione negli istituti pubblici di educazione” (Moritz, Anton Reiser, ed. cit., p. 184).
[28] “Leggere era diventato ormai per lui quasi un bisogno, come può essere l’oppio per gli orientali”, ivi, p. 173.
[29] Ivi, p. 306.
[30] Ivi, pp. 306-307.
[31] Si noti in proposito il gioco ironico sul nome del personaggio: Reiser rimane, più che un vero viaggiatore, un wanderer, romantico viandante-escursionista, in quanto il suo viaggio estetizzato di fatto non lo conduce da nessuna parte. È un gioco di parole simile a quello del cognome di Wilhelm Meister, il quale, più che essere un maestro che impartisce un’educazione, ne riceve una: in vari luoghi del romanzo è caratterizzato appunto come “scolaro” ingenuo che impara con lentezza a comprendere gli altri (Goethe, op. cit., p. 226).
[32] Moritz, Anton Reiser, ed. cit., p. 83.
[33] Ibid.
[34] Ivi, p. 391.
[35] Ivi, p. 329.
[36] “Anche le sue peregrinazioni erano diventate un labirinto al pari del suo destino; in entrambi i casi non sapeva più come venirne a capo” (ivi, p. 358).
[37] E anche qui la sfortuna lo perseguita – memorabile l’episodio in cui tenta maldestramente di rubare del pane ed è costretto a darsi alla fuga.
[38] Ivi, p. 353.
[39] Ivi, p. 319.
[40] Ivi, p. 320.
[41] Costazza, op. cit., p. 82,
[42] “Chi sa rappresentare solo sé stesso non è un attore […]. Per esempio, lei ha interpretato assai bene Amleto e qualche altra parte nella quale il suo carattere, la sua figura e la momentanea disposizione potevano favorirla. Questo sarebbe sufficiente per un amatore” (Goethe, Wilhelm Meister, p. 494).
[43] Cfr. supra, p. 5.
[44] D’Angelo, op. cit., p. 26.
[45] Ivi, p. 20.
[46] Todorov, op. cit., p. 207.
[47] Moritz, Anton Reiser, p. 411.
[48] Costazza, op. cit., p. 73.
[49] Ivi, p. 76.
[50] Cfr. supra, p. 4.
[51] Moritz, Anton Reiser, pp. 85-86.
[52] Si legge, nell’introduzione al quarto libro: “Aveva una certa idea delle cose reali esistenti al mondo, che lo circondavano, alle quali tra l’altro non voleva rinunciare del tutto, perché per una volta sentiva la vita e l’esistenza al pari degli altri uomini. Ciò lo poneva in costante lotta con sé stesso” (ivi, p. 220).
[53] Ivi, p. 373.
[54] Moretti, op. cit., p. 21.
[55] Rispetto alla “summa delle umiliazioni” citata in precedenza (vedi supra, p. 6) c’è un’importante differenza: in quel passo, era il narratore a illustrare la Zusammenhang, la connessione tra eventi che hanno provocato uno sviluppo patologico; in questi ultimi passaggi, invece, è il personaggio stesso ad avere intuizioni su di sé.
[56] Si noti come, parallelamente, anche le passeggiate abbiano una analoga funzione terapeutica, che fa da contraltare a quella escapistica del viaggio che ho descritto in precedenza; di una passeggiata solitaria di Anton ancora ginnasiale leggiamo: “fece nascere improvvisamente nel suo cuore più sensazioni e contribuì molto più all’educazione del suo spirito di tutte le ore che aveva passato a scuola. Fu questa passeggiata a risvegliare l’orgoglio di Reiser, ad ampliare il suo orizzonte e a dargli un’idea chiara della sua vera esistenza” (Moritz, Anton Reiser, ed. cit., pp. 233-234.
[57] Costazza, op. cit., p. 83.
[58] Moritz, Anton Reiser, ed. cit., p. 345.
[59] Moritz, Scritti di estetica, ed. cit., p. 87.
[60] Ivi, p. 52.
[61] Gilodi, op. cit., p. 126.
[62] Ivi, p. 135.